Per il ciclo Conversazioni a San Pio X mercoledì 9 giugno 2021 si è tenuto un incontro sul Beato Rosario Livatino. L’incontro è iniziato con la proiezione del video di Giovanni Paolo II ad Agrigento del famoso discorso contro la mafia.
Mons. Andrea Celli, parroco di San Pio X, ha fatto gli onori di casa e ha sottolineato come si è voluto iniziare con delle parole “da brivido” perché il Papa ha pronunciato quell’invettiva proprio dopo aver incontrato i genitori di Rosario Livatino.
«Sembrava giusto, continuare queste nostre Conversazioni, rimarcando la beatificazione di questo giudice e sottolineando il fatto che in questo territorio parrocchiale ci siano molti magistrati, è un modo per omaggiarli per il delicato lavoro quotidiano che svolgono. Una fede creduta e vissuta quella di Rosario Livatino, in nome della verità, che spesso citava, e dell’adesione totale a Cristo, che è verità e quindi l’adesione alla verità è adesione a Cristo».
L’avvocato e parrocchiano Valerio Vecchione, ha presentato i relatori ed il moderatore.
Il Dottor Alfredo Mantovano, consigliere della Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro studi Livatino, ha tratteggiato gli aspetti di unicità di questo professionista rigoroso e integerrimo, il primo magistrato laico a essere proclamato beato.
«Livatino, come tanti suoi colleghi all’epoca in terra di mafia, operava “a mani nude” contro una criminalità radicata e aggressiva – ha commentato -. Anche se è un uomo del nostro tempo, gli anni che sono trascorsi da quando è stato ucciso hanno visto dei cambiamenti profondi e sarebbe un errore avvicinarsi a lui immaginando che le condizioni nelle quali oggi un magistrato opera fronteggiando la criminalità mafiosa siano simili a quelli che hanno caratterizzato l’esercizio delle funzioni da parte di Livatino, prima come pubblico ministero per 10 anni e poi come giudicante ad Agrigento».
Nel 1990 «non esisteva ancora nessuna legislazione sui collaboratori di giustizia né il cosiddetto 41-bis e questo per Livatino ha avuto un significato particolare perché il suo omicidio è stato deciso proprio all’interno del carcere», ha proseguito il magistrato, aggiungendo che «è la prima volta che un magistrato viene beatificato. Se noi oggi ci troviamo qui è perché la Chiesa ha fatto un passo importante, e ci sollecita a capire, nell’autonomia fra ambito professionale e ambito religioso, quale profondo legame fra essi abbia reso specifica l’esperienza di Livatino. Lui fa il magistrato in un momento storico in cui non sono pochi i giudici uccisi per mano mafiosa. Che cosa ha in comune con loro? Che cosa ha in comune con quelle due straordinarie figure di magistrati della grande Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Che cosa lega la sua esperienza di lavoro, così circoscritta e periferica, con i contatti proficuamente attivati con gli USA e con le autorità dei più importanti Stati nel mondo, da Falcone, e in qualche modo anche da Borsellino? In comune vi erano certamente la statura morale, la qualificazione e il rigore professionale. Vi è, però, qualcosa che fa di Livatino un unicum. Intanto il luogo nel quale egli è chiamato ad esercitare la sua professione: la remota provincia sicula, una sorta di isola nell’isola. Palermo era già altro mondo, per non parlare di Roma. Vi è il contesto professionale: un contesto ‘artigianale’, se paragonato con le risorse e gli strumenti dei quali si sono magistralmente avvalsi Falcone e Borsellino.»
«A trent’anni dal sacrificio, la lezione morale che il beato Rosario Livatino ci trasmette è quella di un testimone radicale della giustizia come progetto di fede e come esercizio di carità cristiana». Sono queste le parole dell’arcivescovo di Monreale Mons. Michele Pennisi,
«durante il processo canonico è emerso che il martirio formale subìto da Livatino si fonda su una vita ordinaria caratterizzata da una sintesi tra religione e diritto», ha aggiunto Pennisi, ricordando l’impegno esemplare del magistrato martire della giustizia ucciso “in odium fidei” dalla stidda agrigentina nel 1990 e beatificato il 9 maggio scorso. «Chi ha studiato i diari di Livatino giudice, ma prima ancora uomo e credente, attesta di incertezze, di lacerazioni interiori e di silenzi che lo rendono ancora più umano, vero e vicino – ha proseguito il presule -. Il Vangelo e il crocifisso, sempre presenti sulla sua scrivania, erano una perenne provocazione al compito che svolgeva». Egli, infatti, ha «sempre sentito profondamente il fascino di Dio come garante di libertà e di giustizia». «La Causa prima dell’uccisione di Rosario Livatino è stata la difesa della giustizia, l’affermazione del diritto contro il delitto. Ma indirettamente il dono della sua vita è da attribuire alla forza della fede cristiana. Un teste durante la causa ha dichiarato: La fede di Livatino veniva considerata qualcosa di avverso, perché il suo zelo nell’esercizio della giustizia significava che non era corruttibile».
Il suo profilo di grande esperienza e maturità è stato evidenziato anche dal moderatore Alfredo Ruocco, consigliere della Corte d’Appello: «era una persona riservata, lontana dal clamore mediatico, eppure, nello stesso tempo, molto aperta al prossimo». Un testimone attivo che, già all’epoca, «andava nelle scuole a parlare di legalità e costituiva un punto di riferimento nel tribunale dove lavorava», che ha poi concluso dicendo che «la forza di volontà insieme alla fede trasparivano già all’inizio della sua attività, per la quale aveva una vera e propria vocazione».
Mons. Celli nel ringraziare i relatori e nel dare spazio alle domande, ha ricordato come percorrendo l’autostrada Catania – Palermo e fermandosi a Capaci davanti alla stele dedicata a Giovanni Falcone ed agli uomini della scorta, ha provato una sensazione fisica, emotiva:
«passare lì non è solo respirare un pezzo di storia buio dell’Italia, ma anche preghiera perché si percepisce ancora la lotta tra il bene ed il male; è anche capire che questa lotta continua, che non si può abbassare la guardia, e che incontri come questi, il nostro combattimento spirituale, quelle lacerazioni interiori che aveva il giudice Livatino e di cui faceva cenno Mons. Pennisi sono il modo in cui Cristo continua ad operare nella storia rendendo gloriosa la Sua croce ed è qualcosa su cui noi cristiani dobbiamo assolutamente riflettere. Quell’immagine bella del Vangelo e del Codice, del diritto e della fede, del nostro vivere come consociati, ed al tempo stesso dell’essere chiamati a realizzare la nostra vita perché nel Battesimo di Cristo siamo chiamati a realizzare molto di più dei nostri progetti, ma a rispondere a quel Progetto più alto che credo noi cristiani dobbiamo assolvere ovvero quello di cercare tutto ciò che ci può unire invece delle dicotomie».
Ecco la registrazione dell’incontro:
E alcune foto: